A proposito di “In a pink room”

Proviamo a delineare i dati formali più evidenti: il colore rosa, il tema del “bambino” dell’infanzia, chiaramente e psicologicamente “femminile”, gli elementi sacrali, la forte materialità a volte indefinita, la deformazione, la “compressione” nella materia della figura umana identificata da volti ed espressioni; talvolta dei “voli” di volti femminili (autoritratti?) trasformati in sorta di farfalle notturne. Indubbiamente sono indizi che ci portano ad associare una serie di tematiche psicologiche profonde: il tema della corporeità femminile, del passaggio dallo stato dell’innocenza, il desiderio di un ritorno impossibile ad essa. Ma ancora, il “limite del fisico”, il timore e la sorpresa, il desiderio di superare o di capire il limite della propria fisicità materica per liberare un sogno, un desiderio, un emozione che sopravvive solo trascendendo o annullandosi, riducendo il sogno o il desiderio ad una eterea e libera, piccola e sognante possibilità immaginale.

Un senso di “sacro” serve ad innescare un processo di iconizzazione dell’infanzia, quasi una celebrazione di uno stato, tuttavia non particolarmente “risolto”ma sentito come problematico; un figlio impossibile, l’idea di una maternità celebrata, sognata o negata. Immagini di una vivissima “matrioska” simbolo ancestrale e popolare di vita, maternità, ma anche di mistero, introversione, ricerca nel profondo: una matrioska contemporanea e sofferente costretta e imprigionata, in tensione.
Ecco: sono suggestioni scaturite da una identità della forma, segno che nemmeno questa, tantomeno questa, è un’arte “leggera” anzi: il grado di introspezione e il tentativo di dare forma visibile ad una tensione non completamente risolta, crea un effetto decisamente violento; non c’è soluzione ma solo il tentativo di ricombinare storie, memorie, sensi ed esperienze, per guardarli in faccia, in attesa di riconoscerne un legame sensato. Se il tema è certamente introspettivo e personale esso è però un dato psicologico dell’universo femminile: probabilmente l’universo femminile coglie le tensioni e le introspezioni di questa installazione con una immediatezza migliore; come universo maschile, siamo messi di fronte “ad un’altra metà” della quale dovremmo avere maggiore coscienza per comprendere quanto il “femminile” non sia la proiezione che di esso ci facciamo, ma una alterità esistenziale che possiamo appena intuire. Dunque la Imperiali ci dice e dice a se stessa “la donna”, la sensibilità esistenziale del “femminile”, intesa in tutta una serie graduale di problematicità, in una sua identità che è più della distinzione sessuale ma è la sua identità nei confronti del suo essere-nel-mondo.

Antonio Zimarino

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