A proposito di “In a Pink Room” |

Le opere di Maria Luisa Imperiali, restituiscono in un’atmosfera carica di simboli, la figura di un corpo supremo aperto alle relazioni ed interazioni con uno scenario magico e segreto: un corpo trasfigurato dall’artista e custodito da forme misteriose, presenze scultoree archetipiche, o da elementi d’uso del quotidiano.
L’utopia di Maria Luisa, non cerca la rottura con il passato, ma cerca di ritrovare la dimensione poetica e mitica dell’uomo e riallacciare i legami con l’origine. La “stanza rosa” diviene un luogo sacro, riferito metaforicamente alla struttura dell’universo, alla terra, e insieme al cielo. Un pensiero rivolto alle modificazioni dell’uomo, una ipotesi che permette di concepire una cosmogonia in cui la coscienza diviene il conduttore di una trasfigurazione ideale del mondo a partire dal suo fondamento antropologico. Umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo si compenetrano fino al conseguimento di una umanità idealizzata.
Ella è consapevole di avere una doppia identità: occidentale e orientale, tradizionale e contemporanea, e per lei qualsiasi cultura, è un prodotto che deve essere consumato. Il suo soggetto preferito è il proprio corpo trasfigurato e riadattato alla luce della storia dell’arte figurativa; la sua posizione artistica è, invece, quella di creare continuamente dei ponti fra realtà e sogno dando origine a dei soggetti bizzarri e fantastici.
Nella serie “Pink moon/luna rosa”. L’artista interpreta una madre e i suoi due bambini trasfigurati nella luce teofonica, che diviene spazio e silenzio, ma anche rito nel cui tempio, come diceva Calvino si ode “il saltello del Giullare”. cioè di colui che penetra l’aria che c’è dentro le cose senza romperle. I visi dei nostri protagonisti, sono glorificati dalla luna/aureola e negli arti vibrano particelle atomiche che simboleggiano il mutamento tra essere interno ed esterno, tra pieno e vuoto, tra indivisibile ed immodificabile.
Nella rosea galassia, i serpenti/ spermatozoi rappresentano il simbolo della rinascita dalla malattia e dalla morte, grazie alla loro capacità di entrare sottoterra e riemergerne e grazie anche alla capacità di mutare pelle. L’uomo, vive in un universo di simboli, ed è egli stesso simbolo, microcosmo di un macrocosmo. E proprio in questa “umanità dissacrata”, la nascita viene celebrata nel paradigma della continua ricerca della verità come rivelazione-svelamento del senso del suo esistere, anteriore alle leggi degli dei e degli uomini, che non fa distinzione tra vivi e morti, presente, passato e futuro. E nella “pink room” l’artista gioca con i suoi personaggi, quasi fossero degli alter ego, raccogliendo le diversità come espressione viva e concreta di volontà di cambiamento. Penso alla favola di Lilliput di Jonathan Swift, mentre osservo la stanza rosa, nel cui ambiente l’artista ha allestito una sorta di parodia alla casa delle bambole, dove convivono in un unico spazio oggetti sparsi come “pink skin” una specie di trivella gigante o la Big Mama, una voluminosa matrioska che incamera nel suo involucro materico, oggetti di uso quotidiano, o ancora, la piccola bimba con la tutina rosa sdraiato sul pavimento che guarda pensieroso l’intera famiglia. Un mondo immaginario, forse, o una scatola dei sogni nella quale si può navigare senza bussola e si vola senza paracadute, dove le varie tonalità di rosa suggeriscono sensazioni varie, dove convivono atmosfere mai sentite: un fil rouge tra il desiderio che la storia finisca e la tentazione di reinserirla subito in una nuova “scatola rosa”.

Dores Sacquegna

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